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Il presepe con le figure a grandezza naturale

Non era ancora l’alba e già il malinconico “ullere ullere” delle zampogne aveva destato i galli del vicolo: era l’ultimo giorno della novena dell’Immacolata, era la fine dell’autunno e l’inizio di quella favolosa stagione che chiamavano Natale.

Mentre le prime luci dell’alba lustravano le selci delle rampe del Salvatore e tra le svettanti lenzuola, ultimo fantasmi della notte, s’intravedevano le stagnanti nuvole dicembrine, noi eravamo in giro per l’enorme casa paterna impegnati in complessi traffici di recupero di sugheri, legni, chiodi e colla per la costruzione del presepe: era un rito che si compiva da sempre in quella mattina di festa che trascorreva veloce come un bellissimo sogno.

Ma alla gioia delle serate passate intorno ai pastori da collocare con giudizio nei vari anfratti dei monti, ed alle scorpacciate di mandarini, di noci, di fichi secchi, di “mustacciuoli e susamielli”, sapevamo che si sarebbe aggiunta una gioia suprema: la visita del Presepe di Don Placido nella chiesa del Gesù Vecchio.

Per quei giorni la solitaria via dell’Università Vecchia si animava d’insolite voci, di grida gioiose di bambini, di richiami e di commenti su quanto visto.

La questione era se nel presepe il gruppo della “ famiglia”, genitori, nonni e nipoti, fosse stato meglio disposto allora oppure l’anno prima; si dissertava a lungo sull’opportunità che il corteo dei re Magi fosse presentato alla vigilia dell’Epifania oppure all’ultimo dell’anno; e poi delle rilucenti “sciecquaglie” delle “pacchiane”, delle ricottelle di “fuscella” collocate davanti alla capanna dei pastori proprio come se fossero vere, e di tanti altri particolari, preziosi ai nostri occhi di bambini, ma in realtà piuttosto futili.

Ma da quando il popolo si ritrovava a questo collettivo appuntamento intorno al presepe di Don Placido?

Si era nel 1824 quando le monache di Donnaromita, ormai ridotte a poche, e decise a riunirsi a quelle di S. Gregorio Armeno, vollero cedere a Don Placido Baccher le superstiti figure della trilogia Presepiale, che , sin da 1650, presentavano ai fedeli nella loro chiesa tra la vigilia di Natale ed il 2 febbraio.

L’anno 1826 è quello dell’incoronazione dell’Immacolata del Gesù Vecchio: alla solenne cerimonia, avvenuta il 30 dicembre, intervenne il re Ferdinando I con la regina ed il seguito della corte, delle autorità cittadine e dei primi Ministri e Magistrati, con le rappresentanze di tutti gli ordini religiosi ed il clero al completo; insomma un avvenimento eccezionale che prese le mosse da Palazzo Reale con una solennissima processione che attraverso la città per raggiungere la chiesa: il ricordo di tale eccezionale fatto fu fissato in una serie di stampe.

Per quel Natale il Baccher volle anche organizzare un presepe, quello che in seguito divenne il famoso “Presepe di Don Placido”, qualcosa di veramente eccezionale, in tal senso, e che ripropose nella Napoli borbonica il gusto dei complessi con figure a grandezza umana, un esempio che ebbe largo seguito.

Lo scultore Nicola Ingaldo fu incaricato di ricomporre, secondo le esigenze delle tre scene evangeliche, tutto il complesso seicentesco delle Monache di Donnaromita, integrandolo con figure da lui plasmate.

In quell’anno – e fino al 1940 – fu presentato nelle tre cappelle di sinistra della chiesa, rappresentando non solo una delle attrattive, ma una delle grandi curiosità natalizie napoletane.

I tre raggruppamenti dell’annuncio ai pastori, della taverna e della Natività, con l’adorazione dei pastori e dei re Magi, erano distribuite nelle cappelle, mentre nell’antistante navata si svolgeva il corteo dei villici, dei borghesi e degli orientali.

Ora il presepe è composto in forma stabile in un ambiente al quale si accede attraverso la sagrestia: ma nonostante il restauro realizzato da Luigi Grassi, nel 1961, solo parte dell’antica fascino colpisce l’osservatore.

Delle figure dell’Ingaldo ne permangono dodici ma solo alcune sono da considerarsi eseguire direttamente dall’artista: un uomo anziano di carattere, una vecchia, un vecchio ed il loro nipotino (per tradizione è il ritratto di Gennaro Baccher, nipote dell’ordinante) le quali non si presentano aggruppate, insieme alla madre ed al padre, secondo gli schemi settecenteschi delle “famiglie”.

Ma nonostante tutto il “Presepe di Don Placido” richiama ancora gente: non più in solenne pellegrinaggio i genitori ed i nonni accompagnavano incari nipoti, ma in macchina; così non festose voci, ma urtanti frastuoni di clakson, riempiono la piccola piazzetta e le rampe del Salvatore in quei giorni di festa; ma su tutto sovrasta ancora il fascino del presepe delle grandi figure che si affacciano alla balaustra a confabulare con i visitatori ed a raccontare loro dei bei tempi: quando per la visita del Re il “quartiere” diventava un trionfo di canti, di luci e mortaretti.

Gennaro Borrelli

Natale 1969

Attualmente il presepe è posto nei locali attigui la sagrestia e sarà presto oggetto di una accurata opera di restauro e valorizzazione di una più ampia area museale della basilica

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